Racconti

Rita la janara

Come sempre, scendere dal mercantile rappresentava la punizione dei sensi, come se Dio in persona volesse ricordarmi che appartenevo agli uomini, e non ai pesci.

Per la seconda volta mi accingevo ad affondare i piedi in quella sabbia straniera, mentre un interprete amalfitano, mezzosangue, il secondo ufficiale Peck, la cui madre era dell’entroterra, provava a comprendere il dialetto dell’isola su cui ero approdato.

Il Capitano Berkley non ci spiegava mai di questa sosta, ma era il capitano, in fin dei conti, e non ci restava che attendere ancora un poco l’aria di casa per sottostare alla sua voglia di donnacce foriane.

“Foriane”, sì. La storia che voglio raccontarvi ha come fulcro sulfureo quella splendida e misteriosa isola, Ischia, della quale il Capitano era talmente innamorato da tardare il ritorno a casa di almeno una settimana. Da far mormorare di astio la ciurma, i cui uomini non vedevano l’ora di abbracciare i figli e aprire le cosce delle proprie mogli, sperando che nessun altro lo avesse fatto al posto loro durante la prolungata assenza.

Per quanto possa sembrare strano, anche le piccole terre circondate dal Mediterraneo si suddividono in località con propri nomi, proprie usanze e propri sotto-dialetti; pare che i romani si siano divertiti a sminuzzare il glorioso stivale in frammenti, come per far impazzire ogni forestiero che ci mette piede, e dove ti giri trovi qualcuno che parla un dannato idioma, ogni volta diversamente incomprensibile.

E quello di Forio, località ischitana caratterizzata da individui dalla pelle insolitamente scura, era un porticciolo al quale la Daylight, la nostra nave, era molto affezionata.

Ancor più dell’isola, Berckley era innamorato di una misteriosa donna, la cui dimora era lontana da ogni altra dei suoi compaesani, queste erano le storie che mi raccontava il secondo ufficiale, facendo fischiare le consonanti con i pochi denti consumati dallo scorbuto e rivoli di spiriti che sfuggivano dalle sue labbra divorate dalla salsedine.

Peck Whistle, lo chiamavamo – Peck il flauto.

Tonino era il proprietario dell’osteria che si prestava a ospitarci; aveva un accordo con la Daylight per un prezzo speciale, in cambio di una piccola parte del carico di tabacco e qualche storia da terre che probabilmente egli non avrebbe visto nemmeno con un cannocchiale, e probabilmente nemmeno sapeva cosa fosse, un cannocchiale.

Tonino parlava, anzi, sporcava il nostro inglese di Boston già abbastanza lurido di suo, e sosteneva, alla luce della candela, la storia raccontata da Peck. Della bella e pericolosa Rita, detta a’janar’e’toll’ – La strega della Tolla.

A quanto pare, il capitano era uno dei tanti a essere stato vittima del suo incantesimo, il potere tramandato di generazione in generazione, da janara a janara, da strega a strega, insomma. Perché questa è l’unica parola alla quale il termine janara si può accostare: strega, una stramaledetta concubina del demonio.

Pare che il segreto di queste ammaliatrici stia nelle proprietà miracolose delle acque termali per le quali Ischia è famosa, e che da tempi antichi le janare ci facessero il bagno per aumentare il potere delle loro magie.

Ma lì, tra sbuffi vulcanici, acque calde dove dovrebbero essere fredde, acque fredde dove dovrebbero essere calde, e storie di omuncoli che infestano abitazioni primitive, tutto pare ereditiero di fedi pagane, e gli sguardi di questi uomini di pelle scura – a quanto pare di origine saracena – mi turbano ancora al solo pensiero.

All’ennesimo giro del loro liquore tradizionale a base di erbe per me impronunciabili, mi trovai a vagare per le viuzze polverose e tra i fantasmi dei morti di peste, i cui lamenti si libravano ancora nel vento discendente dal Monte Epomeo.

Senza nemmeno accorgermene, fui tra i pini marittimi e i castagni di cui il versante ovest s’ammantava orgogliosamente e le luci del paesello di Forio sussurravano di tornare indietro.

Più volte, nel mio claudicare, caddi a terra. Ebbro. Mormoravo preghiere cercando di far cessare i tamburi di dolore che mi flagellavano le tempie.

E infine, tra la caotica trama di rami e arbusti del sottobosco, li vidi.

In una piccolissima radura, stava la capanna di una donna che si ergeva nuda contro i raggi freddi della luna e la luce di un grande focolare e, inginocchiato, Berckley le offriva doni, le baciava i piedi, la serviva come un cagnolino.

La mia sanità mentale ebbe cedimento, e ce l’ha ancora se ripenso a quanto fosse ferrea, di fronte all’equipaggio, la disciplina del capitano nella vita di mare.

Ma non di fronte a Rita, alla janara, alla strega.

Facendomi piccolo piccolo dietro uno dei tanti massi scagliati dai vulcani in tempi remoti, spiai il rito che inizialmente sapeva di sacro, ma verso il finale furono i gemiti e i godimenti di entrambi a lasciare intendere il lato profano.

D’istinto, strinsi il pugnale, ma la paura di cadere sotto effetto dell’incantesimo o per l’abilità con la spada del capitano mi fecero desistere.

E corsi.

Scappai incespicando con la sbronza che mi spintonava qui e là, che mi faceva urtare contro tronchi e massi.

Infine, stanco e sudato, mi trovai di nuovo all’osteria di fronte agli occhi di Tonino e il secondo ufficiale, i quali mi guardarono straniti: «Capitano.» Mi chiamò Peck Whistle: «Capitano Berkley, state bene?»

Storia e foto di Bellard Richmont

Commenti disabilitati su Rita la janara